La lunga storia della cattedrale di Trento
Al visitatore è qui offerta la descrizione storico artistica della Cattedrale di san Vigilio. Il testo è stato redatto dall’insigne storico Mons. Iginio Rogger che per decenni ha curato i lavori di ricerca dell’antica basilica paleocristiana e la custodia e conservazione dell’intero complesso monumentale. Chi prende oggi contatto con il Duomo di Trento, la chiesa cattedrale che porta il nome del patrono diocesano san Vigilio, è invitato dalle stesse strutture ad estendere il suo sguardo in larghezza e in profondità. Guardando dalla piazza quel lato settentrionale dell’edificio, realizzato ancora con funzione di facciata verso la parte più antica e più nobile della città, articolato con le sue strutture dal campanile alla crociera con la cupola, ci si rende conto come la costruzione non rimane un fatto isolato, ma si integra con il retrostante Castelletto dei vescovi e con l’adiacente “Palazzo Pretorio” protratto fino all’asta verticale della torre civica. Risultano così ben definiti i due lati della grande piazza che forma il cuore della città, segnati da una forte presenza romanica. E l’incidenza storica dei caseggiati riemerge ancora se si ricorda che il palazzo fu l’effettiva residenza dei principi-vescovi nel Medioevo fino al secolo XIV e che il Castelletto include il corpo della cappella palatina, porzione eminente del palatium episcopatus. Nell’assetto attuale questi stessi ambienti ospitano le raccolte del Museo Diocesano Tridentino, con le testimonianze storiche e artistiche più cospicue della chiesa di Trento e la presenza dello stesso Tesoro del Duomo.
La cronologia del Duomo di Trento ha raggiunto finalmente il suo profilo, grazie ai più recenti studi e alle rispettive indagini archeologiche. Nell’antica Tridentum romana, quale sopravvive fino alle invasioni barbariche, si registra la presenza di due chiese, distinte per ubicazione e per nome. Dentro la cinta romana delle mura, nel luogo ora segnato dalla parrocchiale di Santa Maria, esiste una ecclesia che è la chiesa residenziale del vescovo, congiunta ad altre strutture di culto e di assistenza. Invece fuori della porta urbana localizzata ai piedi di quella che è oggi la torre civica, lungo il tratto di strada che usciva verso Verona, sorge una basilica, cioè una chiesa- santuario eretta per il culto dei martiri, che viene a trovarsi sotto il pavimento del Duomo attuale alla profondità di circa tre metri. Questa antica basilica di S. Vigilio, i cui resti verranno descritti nel capitolo ad essa dedicato (v. pp. ), deve la sua prima origine alla sepoltura dei tre missionari del territorio rurale dell’Anaunia, il diacono Sisinio, il lettore Martirio e l’ostiario Alessandro, trucidati dai rustici pagani in Val di Non il 29 maggio 397. Il culto che il vescovo Vigilio ha instaurato per loro è strettamente connesso con l’impianto del sepolcro. Vigilio stesso alla sua morte (probabilmente anno 400), fu deposto a fianco dei tre Santi, associato così ai loro meriti e al loro culto. Nei secolo seguenti l’edificio subì una lunga serie di trasformazione e fu alfine solennemente consacrato ad opera del patriarca di Aquileia e del vescovo locale Altemanno il 18 novembre 1145.
La decisione di sostituire l’antica basilica col nuovo Duomo è del vescovo Federico Vanga e si lega all’anno 1212 con l’incarico di progettazione conferito al costruttore Adamo D’Arogno (nell’odierno Canton Ticino), capostipite di una lunga serie di maestri comacini che vi operarono per più di un secolo. L’edificio crebbe negli anni seguenti e subentrò al vecchio santuario solo dopo la metà del secolo. Il suo impianto architettonico era sostanzialmente romanico, come si vede nella zona dell’abside e del transetto, oltre che nel tracciato del perimetro che prevedeva due campanili in facciata. L’assetto interno della navata principale invece appartiene a una fase schiettamente gotica, attestata dal verticalismo delle proporzioni, dallo slancio dei pilastri e dalla espansione dello spazio che arriva ad assorbire perfino l’area spettante al piede dei campanili. Il completamento di determinate strutture, soprattutto nella zona di controfacciata e nel tiburio sopra il transetto, richiese ancora molteplici interventi realizzati attraverso i secoli XV e XVI. L’età barocca aggiunse la Cappella del Crocifisso (1682) e negli anni 1739-1743 ristrutturò profondamente la crociera e il transetto, sostituendo al corpo della cripta l’attuale area del presbiterio e del coro con il vistoso baldacchino sopra l’altare. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e fino ai tempi della prima guerra mondiale il Duomo fu oggetto di notevoli interventi patrocinati dal governo austriaco, che registrano tra l’altro una ricostruzione del tetto non più a carena ma a due spioventi e un totale rifacimento della cupola realizzata in forme neoromaniche. Gli ultimi interventi, promossi negli anni 1963-1977 dall’Arcivescovo Alessandro M. Gottardi, comportarono il ritorno dei due bracci del transetto al livello originario, il nuovo assetto liturgico del presbiterio e la scoperta degli antichi ambienti sotterranei.
Il fianco settentrionale dell’edificio, non completamente visibile per chi lo guarda dalla piazza, comprende anche la struttura del coro, che si sviluppa oltre la costruzione merlata del Castelletto e l’absidina sul lato est del transetto con l’adiacente portalino d’ingresso (b) ornata di bassorilievi marmorei, occultata ora dal setto murario che chiude l’ambito esistente fra il Castelletto e il corpo stesso della chiesa.
La pianta è a croce latina, a tre navate, con due absidine laterali sviluppate sui fianchi del transetto. La lunghezza complessiva è di m. 72; la larghezza di m. 24, dei quali 12 sono assegnati alla navata maggiore; altezza della navata maggiore è di m. 26, quella delle navate minori m. 19. Le lettere alfabetiche rinviano al testo.
La fronte del transetto verso la piazza presenta il grande rosone con la ruota della fortuna (c), opera di uno scultore campionese di fine Duecento, che ebbe qualche influsso anche sullo sviluppo architettonico dell’edificio. La mitica figura della Fortuna sovrapposta all’anello centrale sta girando la gran rosa dalle dodici foglie che simboleggiano le rapide ore della giornata dell’uomo, mentre sulla ghiera esterna si accompagna il giro dei dodici ometti, che ruotano in senso antiorario salendo all’acme della felicità dove il fortunato trionfa, per poi declinare e scendere con la ruota a capofitto fino al punto più basso.
Alla base del muro, ad altezza d’uomo, si leggono alcune misure di lunghezza, come la pertica, il passo e il braccio di Trento, qui incise per controllo all’uso del mercato.
Segue il protiro cinquecentesco (d) della “Porta del vescovo”, così chiamata perché da questa parte entravano i pomposi cortei provenienti dalla residenza vescovile del Buon Consiglio attraverso la vecchia Via Larga (l’attuale Via Belenzani). Il protiro, che nel timpano reca l’immagine scolpita di S.Vigilio, ha riutilizzato i due leoni stilofori del portale romanico, che si apre con profonda strombatura del fianco della chiesa. La lunetta sopra il portale espone un Cristo Pantocrator con i simboli dei quattro evangelisti in due grandezze diverse, pregevoli sculture di fattura più antica (compagnia di Adamo D’Arogno) ricollocate qui in fase successiva.
La rimanente fiancata della chiesa fino al campanile dimostra la solidità e la dignità con cui è costruito il tempio, lavorato tutto in pietra viva di Trento diligentemente squadrata. Le lesene esistenti ricordano una impostazione che fu poi abbandonata quando furono inserite a maggiore altezza le finestre. Si rivela così una cronologia piuttosto complessa della costruzione, sulla quale ancora si studia. Nel paramento furono riutilizzate, inserendole in posizione orizzontale, anche tre pietre scolpite di epoca romana, con fregi che presentano fra l’altro il motivo del tridente, fertile di fantasie etimologiche sull’antico nome della città (Tridentum).
Corona l’intero lato settentrionale del Duomo la galleria praticabile, sorretta dalle molte colonnine romaniche, accessibile da una porticina presso il campanile e sviluppata anche oltre la sporgenza del transetto in modo da abbracciare l’intera zona absidale e raggiungere il transetto meridionale.
Nella finestra del campanile (e), sulle spalle che portano l’arcatura, si presenta una serie singolarissima di sculture, ancora poco conosciute, attribuibili forse al comacino Egidio da Campione nei primi decenni del Trecento.
Lafacciata occidentale (f) è dominata dalla impostazione dei due campanili, dei quali uno dovette rimanere ineseguito per la profonda innovazione dell’assetto interno. Il campanile settentrionale, poggiato all’interno su due archi, fu elevato in fasi successive e ricevette, nelle prima metà del Settecento, la cuspide a cipolla, imitata poi tante volte nelle valli trentine. L’intera facciata era costruita per essere guardata da vicino, dato che fino a metà Ottocento lo spazio antistante era ristretto. Domina in essa l’apertura strombata del portale maggiore, con l’architrave a girali di vite e la lunetta affrescata con Maria Santissima, S. Vigilio e altro santo. L’immenso rosone col Cristo Pantocrator e i simboli dei quattro evangelisti, il quadrato centrale e i sedici petali che in circonferenza sviluppano una delicata trama di intagli marmorei, viene attribuito anch’esso a Egidio da Campione e ai primi decenni del Trecento. La sommità della facciata invece, con l’occhio rotondo e le loggette che salgono verso il vertice, è opera dei recenti restauri di fine Ottocento.6. Finestra sul lato del campanile. Figure scolpite della prima metà del Trecento.
La facciata presenta in alto sul lato estremo del campanile tronco un’epigrafe che ricorda la munificenza del nobile Guglielmo di Castelbarco; essa reca la data 1309, che è rilevante per la cronologia dei lavori di questa parte dell’edificio e del fianco meridionale.
Il fianco meridionale del Duomo è contornato da antistante sagrato (oggi: Piazza Adamo D’Arogno) e dalle vecchie case canonicali. Custodisce una recente statua di S. Vigilio dello scultore Stefano Zuech
Il lato della Chiesa è trattato in maniera più semplice e uniforme, con un assetto di lesene e una serie di archetti pensili sorretti da testine e protomi animali scolpiti. Il leone araldico della famiglia Castelbarco conferma la data del secolo XIV. Una forte sporgenza da questa parte forma la Cappella Alberti, aggiunta in epoca barocca, la cui cupola presenta una certa analogia con quelle che erano le forme originarie del tiburio cinquecentesco del Duomo.
Fra la Cappella Alberti e il braccio del transetto (g) si apre un altro ingresso laterale di fattura romanica con lunetta affrescata. Lo spigolo di incontro col braccio sud del transetto è smussato, perché contiene la scala a chiocciola che conduce alle parti superiori. Un’epigrafe in grandi lettere gotiche ricorda qui un canonico Jacobus Comes, che è uno degli ultimi rampolli della nobile famiglia di Appiano, morto nell’anno 1300. Sul fianco della Cappella Alberti si trovano affisse alcune lapidi sepolcrali provenienti dal pavimento del Duomo donde furono rimosse insieme ad altre sulla fine dell’Ottocento.
La parte absidale riserva una insospettata ricchezza di forme architettoniche e di elementi decorativi. Il corpo dell’abside maggiore (h) distingue nettamente il piano inferiore, corrispondente alla cripta, dal piano rialzato che abbraccia il coro. Le grandi monofore con eleganti strombature dettano l’armonica ripartizione dei campi, che si articola in un gioco sempre più intenso di elementi, fin quasi a rompere l’equilibrio tra funzione architettonica e apparato decorativo: è tipico in proposito lo scherzo delle colonne ofitiche sorrette dai grifi.
Accanto all’abside maggiore, sul braccio meridionale del transetto si innesta la mole minuscola dell’absidina (i), più sobria anche nella decorazione. A lato di essa si apre un ultimo ingresso, stretto e alto, sormontato da un protiro snello sorretto da telamoni e da un leone stiloforo. Insieme al leoncino che sovrasta il protiro, ai bassorilievi con leoni e draghi sui fianchi dell’ingresso, ai due grifi alati che si trovano alla base della finestra centrale dell’abside maggiore, queste sculture vengono attribuite a una buona maestranza comacina che operò dopo la metà del Duecento nell’epoca del vescovo Egnone di Appiano (m. 1273).
Al corpo dell’abside maggiore appartengono due epigrafi significative: quella dell’arcidiacono Bonifacio di Castelbarco (m. 1238) incastonata nella base dell’angolo sud-est. E quella del costruttore Adamo D’Arogno, con menzione del mandato a lui conferito nel 1212, inserita nel lato orientale dello stesso angolo verso la fine del Duecento per identificare il luogo di sepoltura dei i e discendenti della sua famiglia.
La regione absidale appare all’occhio incompleta per la collocazione del Castelletto che impedisce la visione del transetto settentrionale con relativa abside e ingresso laterale. L’interno del Castelletto era occupato in basso da una cappella seminterrata dedicata a S. Giovanni Battista; al piano rialzato conteneva la monumentale cappella del palazzo vescovile dedicata alla santa Croce e ai santi Biagio e Lucia. L’edificio, con abside che gli appartiene, fu consacrato nel 1071 e fu ricostruito con la sovrastante sala a trifore e col campaniletto (che la leggenda trentina collega all’eremita S. Romedio di Val di Non) dal vescovo Federico Vanga (1207-1218). Per molti anni si credette di identificare con questa costruzione l’antica basilichetta paleocristiana di S. Vigilio. Oggi tale ipotesi è definitivamente esclusa.
L’interno
Valutazione d’insieme. I costruttori hanno saputo amalgamare in una costruzione unitaria due parti molto diverse per epoca e stile. L’impianto del presbiterio è concepito su moduli più quadrati con un evidente senso della massa ed è attribuibile alla prima metà del Duecento. La navata maggiore invece, con le sue campate rettangolari straordinariamente sviluppate in senso verticale e sorrette dagli energici pilastri a fascio, ebbe il suo assetto definitivo un secolo più tardi, evitando tuttavia ogni brusca frattura stilistica.
Mentre l’impostazione esterna farebbe pensare a un duplice campanile in facciata, cui doveva corrispondere un nartece intermedio prima di accedere all’interno della chiesa, qui è conglobata allo spazio interno già la prima delle sette campate, assorbendo anche l’area che spettava al piede dei campanili. Questa tendenza espansiva viene favorita anche dalla collocazione ad angolo dei pilastri a fascio e dall’altezza degli archi, che pur conservando formalmente l’impostazione basilicale dell’alzato, aiutano la dilatazione del senso spaziale fondendosi con l’ambito delle due navate laterali senza marcare particolari divisioni. I due muri laterali sono conformati così in sintonia con lo spazio interno. Ad essi è stata dedicata una cura sproporzionatamente maggiore di quella che occorrerebbe per semplici piano di chiusura. Le due scale rampanti (l), ricavate nello spessore delle pareti, hanno la funzione di muovere e di articolare il muro, allargando e arricchendo lo spazio. Fenomeno più unico che raro nella storia dell’architettura, queste scale che salgono all’indietro sembrano introdurre una controspinta al movimento principale dell’edificio, che procede dalla porta principale d’ingresso verso l’altare maggiore. In questi elementi, più ancora che nell’uso dell’arco ribassato delle volte e nella quasi totale assenza dell’arco acuto, è radicata la sapiente fusione del romanico tardo col gotico, che costituisce il vanto maggiore del Duomo di Trento.
Indubbiamente la combinazione di questi vari elementi ha comportato nel tempo anche una serie di problemi statici ed estetici. La lunghezza dell’interno è divenuta eccessiva (senza la prima campata lo spazio della navata centrale è misurabile in tre campate quadrate). La loggia altissima che è venuta a inserirsi in controfacciata fra il residuo dei due campanili non ha funzione di cantoria né di tribuna d’organo, ma è un pontile con funzione statica per consolidare la precarietà delle varie strutture.
La zona del presbiterio e del coro (m) è stata fortemente modificata nel secolo XVIII.
Fino al 1739 essa possedeva una cripta, profonda appena m. 1,10 dal piano della chiesa, alla quale si accedeva da tre grandi arcate frontali e da ingressi laterali rivolti ai due braci del transetto. Sopra la cripta un piano pensile, elevato di m. 4,30 rispetto al piano pavimentale della chiesa, portava l’altare maggiore e il coro. E’ da ricordare che le sessioni solenni del Concilio di Trento furono celebrate quasi tutte sopra questo “ponticello del coro”, adattato ad aula conciliare mediante tavolati e drappi. La trasformazione radicale che portò alla situazione odierna fu motivata da un voto della città per la liberazione dall’assedio dei Francesi nel 1703. Così la cripta fu demolita e il piano del coro e del presbiterio fu portato alla quota attuale.
Delle due lapidi vistose che ancora si vedono affisse in alto ai due pilastri anteriori della cupola, una (a sud) descrive le ristrutturazioni del 1739-40, l’altra (a nord) commemora con qualche imprecisione quella che fu l’ubicazione del Concilio di Trento.
L’altezza del vano sottostante alla cupola fu occupata dal grande baldacchino barocco, che riprende l’idea del baldacchino berniniano della Basilica Vaticana, ma la traduce in una versione ottica, fatta di luce e di movimento. Sotto il baldacchino, l’altar maggiore, eretto già allora con mensa rivolta anche al popolo, si eleva nel centro focale della chiesa, sopra quello che fu già il luogo della sepoltura di S. Vigilio. Altare e baldacchino sono dei fratelli Domenico e Antonio Sartori, da Castione presso Mori, che usarono marmi pregiati, anche francesi e africani. Gli angeli, i putti e gli emblemi che ornano la parte superiore del baldacchino, sono in gran parte dello scultore Francesco Oradini. In epoca recente furono collocate sotto l’altare maggiore le reliquie dei patrono S. Vigilio, chiuse in una urna gotica rivestita di squame in pietre dure.
Il presbiterio fu recentemente adeguato alle esigenze della celebrazione, estendendo alquanto il piano pavimentale in avanti e creando l’ambone marmoreo con l’utilizzo di un pluteo romanico scolpito. La sede episcopale è provvisoria e attende una sistemazione migliore, che si relazioni anche alla sede monumentale collocata in fondo al coro.
Anche la struttura e il mobilio del coro, che si estende dietro il presbiterio, furono integralmente rinnovati in quell’epoca, con la doppia serie di sedili e il trono vescovile intagliati in noce. Sopra la serie degli stalli canonicali 24 pannelli intagliati raffigurano apparizioni di angeli, dall’Antico e Nuovo Testamento. Sopra la porta che conduce in sagrestia era esposta l’immagine della Madonna del Coro, una copia della Madonna di S. Maria del Popolo a Roma, portata a Trento dal vescovo Giovanni Hinderbach nel 1466 (ora conservata nel Museo Diocesano). In fondo al coro un lacerto di affresco quattrocentesco con Madonna è l’unico residuo di una decorazione che un tempo abbracciava tutto l’ambiente.
L’organo, recente, ricoverato dietro la cattedra vescovile sul fondale del coro, rappresenta una soluzione provvisoria di necessità, in attesa di soluzione migliore.
Nel transetto meridionale si apre la plastica volumetria della piccola abside dedicata a S. Stefano (n), il cui martirio per lapidazione è raffigurato nei due pannelli scolpiti, ai lati della finestra. L’altare custodisce ora le reliquie dei protomartiri trentini, il diacono Sisinio, il lettore Martirio e l’ostiario Alessandro, i tre santi che occuparono lo spazio della prima basilica martiriale sulla fine del secolo IV. Le due urne in bronzo che ora le contengono sono di M. Demetz (1966) e di L. Carnessali (1978).
Le pareti del transetto conservano ancora buona parte della vecchia decorazione in affresco. La Madonna con santi, il Crocifisso ed altri santi, dipinti sulla parete sovrastante all’absidina, sono di scuola lombarda, forse bergamasca, della fine del Trecento. Il san Cristoforo maggiore dipinto sulla parete meridionale (o) presenta caratteri romanici, d’influsso veronese fine secolo XIII. Nell’angolo sottostante il rozzo sarcofago elevato su due mensole da terra ospitava fino al 1977 le spoglie del B. Adelpreto, di cui ora vedasi a p… Accanto ad esso si trova il monumento sepolcrale del generale trentino Ludovico Lodron, che nel 1571 partecipò alla battaglia di Lepanto. Omettendo altri monumenti minori, si segnala ancora la pietra sepolcrale (p) del condottiero delle truppe venete Roberto Sanseverino, sconfitto e caduto nella battaglia di Calliano del 10 agosto 1487. Oltre l’angolo l’arca sontuosa destinata alla sepoltura del vescovo Udalrico Lichtenstein (1493-1505) in cui si assommano elementi gotici e rinascimentali (la tavola con Crocifissione che la sovrastava è ora conservata al Museo Diocesano). Nel primo tratto della navata adiacente al transetto una portina romanica (q) praticata nel fianco meridionale immette nella scala che porta alle gallerie; la sua lunetta è decorata col rilievo d’un ariete balzante.
La Cappella Alberti, o del S. Crocifisso (r), si apre sul fianco della campata seguente. Essa fu costruita nel 1682 per volontà del principe vescovo Francesco Alberti-Poia, che volle qui anche la sua sepoltura. L’architettura e la decorazione in affresco sono opera di un sacerdote-artista, Giuseppe Alberti da Tesero, che progettò un programma iconografico unitario intorno al tema centrale della redenzione. Il punto di convergenza è costituito dal grande Crocifisso ligneo con l’Addolorata e S. Giovanni, custodito nello splendido altare barocco dei marmorari Benedetti da Castione. Nel timpano sopra l’altare un gruppo marmoreo, dello scultore Francesco Barbacovi, raffigura l’albero del paradiso terrestre col peccato dei protogenitori che fu espiato e vinto dal nuovo Adamo sulla croce. La grande scultura lignea, opera del norimberghese Sixtus Frey (c. 1505), sormontava prima l’altare della S. Croce, collocato in testa alla navata centrale. Da qui desunse il particolare riferimento al Concilio, profondamente impresso nell’animo della popolazione trentina.
A destra e sinistra della cappella due grandi tele, del pittore bavarese Carlo Loth e della sua bottega, rappresentano la natività di Cristo e la sua risurrezione; nella zone inferiore, in mezzo, esse portavano inseriti due medaglioni ovali con bassorilievi marmorei raffiguranti l’estasi di S. Francesco e il vescovo Francesco Alberti presentato da S. Vigilio al Crocifisso. Gli ovali furono eliminati in un restauro del secolo scorso. Il secondo di essi si trova ora infisso all’esterno della cappella, in alto sopra l’arco di ingresso. In occasione di detti restauri, che eliminarono anche la ricca decorazione a stucco che ornava la cappella, furono trasportate nella navata anche le due statue barocche della Maddalena e della Veronica, opera di Paolo Strudel, che originariamente fiancheggiavano l’altare. La cappella è chiusa da una deliziosa cancellata in ferro battuto, con lo stemma del vescovo costruttore.
Proseguendo lungo la navata meridionale s’incontra anzitutto l’altare di S. Anna, appoggiato molto discretamente alla parete (s), ornato di una pala attribuita al Fogolino (o forse Romanino), della prima metà del Cinquecento. Nella penultima campata sorge l’altare vistoso dell’Addolorata (t), di Domenico e Antonio Sartori, eretto nel 1772 per la veneratissima immagine della Vergine, in legno, riccamente vestita, che si trova nella nicchia.
Al piede della controfacciata, in arcosolio, sta l’avello sepolcrale di Calepino Calepini (u), giureconsulto trentino, morto nel 1495; sopra, grande tela di G. Alberti con S. Francesco e S. Antonio da Padova. Più a destra, nello spazio della navata centrale, si erge il monumento del celebre naturalista e botanico Pietro Andrea Mattioli, senese, che fu medico di corte del cardinale Bernardo Clesio e morì a Trento nel 1577.
Navata settentrionale. Dall’altra parte dell’ingresso principale, in posizione simmetrica col precedente, si colloca il monumento del conte Leonardo Nogarola, di famiglia veronese, consigliere del re dei Romani Ferdinando, che in occasione del conclave del 1534 gli diede incarico di adoperarsi per l’elezione del cardinale di Trento a papa. Sul lato settentrionale della navata figura un ricco altare barocco (v), che si dice qui trasferito dalla chiesa di S. Lorenzo ed espone attualmente un S. Antonio col Bambino di Domenico Udine (1824). Nello spazio successivo si collocano le tre memorie sepolcrali del medico di corte Giulio Alessandrini (m. 1590), del preposito Liduino Piccolomini (m. 1680) e dell’arcidiacono Girolamo Roccabruna (m. 1599). L’altare che segue (w), affiancato dalle statue marmoree di S. Carlo e S. Ferdinando (dello scultore Cristoforo Benedetti), fu costruito dal preposito Carlo Ferdinando Lodron (m. 1730), che nella pala, di Nicolò Dorigati, fece raffigurare vari santi cari alla sua famiglia, fra cui S. Ruperto, patrono di Salisburgo.
In corrispondenza alla porta, presso il pilastro interno, si trova una deliziosa acquasantiera rinascimentale, commissionata nel 1515 dal canonico Giovanni Ortwein (la tazza è sostituita). Più avanti, nell’ultima campata, figura il monumento sepolcrale (x) del cardinale Bernardo Clesio, il più famoso dei principi vescovi di Trento, uomo politico di rango europeo e mecenate della rinascenza trentina. La sua morte ebbe luogo a Bressanone, due giorni più tardi della data qui segnata, cioè il 30 luglio 1539.
Il transetto settentrionale è usato come battistero e presenta al centro il fonte battesimale (y), di Francesco Oradini (m. 1754). Molto significativa è la decorazione in affresco. Sulla parete settentrionale, sotto il rosone della fortuna, una fascia affrescata narra in otto episodi ininterrotti la leggenda fatale di S. Giuliano, dal vaticinio, alla partenza da casa, alle nozze, al tragico errore della uccisione dei genitori. Il nome dell’autore è segnato sul muro della città turrita che sta quasi al centro: Mons de Bononia, un pittore non ancora del tutto identificato, ma collocabile nella scia di Vitale da Bologna verso il 1365. Sotto la leggenda di S. Giuliano vari affreschi frammentari, di artisti diversi di quel secolo, rappresentano: la decollazione del Battista (attribuita a Tommaso da Modena), una Madonna col Bambino, una Trinità nella forma del thronus gratiae, lo sposalizio di S. Caterina, l’apparizione del Risorto alla Maddalena, la Natività di Cristo e la morte della Vergine (queste due ultime sono di impronta giottesca). L’arca in pietra, sospesa in alto su due mensole, conteneva fino al 1977 i resti del principe vescovo Bartolomeo Querini (1304-1307). Sul fianco sinistro è collocata la cosiddetta “Madonna degli Annegati” (già all’esterno, nella nicchia presso la Porta del vescovo). In un grande sarcofago collocato ai suoi piedi si conservano le spoglie venerate del vescovo Giovanni Nepomuceno de Tschiderer (1834-1860), proclamato beato a Trento dal papa Giovanni Paolo II il 30 aprile 1995.
La Madonna degli annegati originariamente era policroma. riprende il modello ieratico della icona bizantina, elaborandolo con senso di solidità plastica e con una nota di vitalità popolare immediata. L’opera si colloca verso la metà del Duecento.
L’absidina, notevolmente più grande della sua consorella nel transetto meridionale, presenta una finestra spostata sulla sinistra, per andare incontro alla luce nell’ambiente esterno che era ancora libero da quella parte. Decentrato verso destra è inserito un pannelloscolpito, con la scena del martirio dell’apostolo S: Giovanni, condannato al supplizio della caldaia d’olio bollente (del “Maestro della ruota della fortuna”). L’affresco con la crocifissione, la Madonna, S. Giovanni e una figura incoronata (S. Elena o la Chiesa) risale stilisticamente al Duecento. Le due sante più a destra appartengono a un affresco più tardivo, databile verso la metà del Trecento.
Chi volesse a questo punto fare una visita alla sagrestia (a), può recarsi nell’andito che si trova tra il transetto settentrionale e il lato ovest del Castelletto. Sul fianco esterno del coro del Duomo è ancora nettamente visibile la nicchia della porta che segna la quota pavimentale del coro fino al 1739 quando ancora esisteva la cripta. Anche all’interno si poneva approssimativamente a questa quota il pavimento del vano principale che era la cappella palatina del palazzo episcopale. Sotto di essa stava il corpo di una cappella inferiore, di cui si vede ancora la soglia d’ingresso nello scantinato. Nel Settecento i piani sono stati scomposti e il corpo della sagrestia ora corrisponde alla parte superiore della cappella di S. Giovanni Battista più la parte inferiore della cappella palatina dedicata a S. Biagio. Prima e dopo questo scambio dei piani lo spazio ebbe anche al funzione di aula capitolare e fu il luogo di elezione dei principi vescovi.
I grandi armadi della sagrestia sono piuttosto recenti. L’oggetto più degno di ammirazione è il Heilthumsaltar, cioè l’armadio delle reliquie in fondo all’abside, con le due porte dipinte a formare inventario, databili intorno al 1741. La seconda sagrestia, all’uso attuale dei canonici, è arredata da una imponente dotazione di armadi, creati negli anni 1745-48, sormontati dalle insegne araldiche dei 17 canonici che commissionarono il lavoro. Sopra gli armadi figura una serie di sei dipinti in formato minore con storie e miracoli di S. Antonio da Padova, di anonimo veronese di metà Settecento. L’aula ospita anche un affresco con Crocifisso, Maria e Giovanni, di pittore trecentesco veronese, strappato dall’absidina del transetto settentrionale.
La basilica sotterranea: gli scavi condotti negli anni 1964-1977 (direzione I. Rogger) hanno riportato in luce i resti della precedente basilica paleocristiana con successive modifiche. L’accesso (z) è all’angolo del transetto settentrionale e scende attraverso una delle scale laterali alla cripta demolita nel 1739. Di questa cripta tardoromantica, pertinente al Duomo attuale, il visitatore può identificare il piano pavimentale (situato pressapoco alla quota dell’ambulacro odierno ) e vari altri elementi superstiti dei tre ingressi frontali e delle fiancate, come pure la serie delle finestre che illuminavano la porzione posteriore sottostante al coro.
Per una visita razionale alla basilica paleocristiana si consiglia di percorrere in lunghezza tutta l’area sottostante alla navata centrale del Duomo, recandosi fino alla zona dell’antica porta principale (1). All’esterno di questa si vede ancora la pavimentazione originaria della zona antistante, corrispondente a un atrio o forse quadriportico, di quota pavimentale circa mezzo metro più bassa.
Attualmente in questo spazio sono sistemate alcune pietre tombali molto più tardive, di cui la più ragguardevole è quella del principe vescovo Udalrico Frundsberg (m. 1493).
A questa quota si pone l’impostazione primitiva dell’aula vigiliana di fine IV secolo, ricavata in parte col reimpiego di sezioni murarie di edifici profani precedenti situati in posizione ortogonale rispetto al tracciato viario romano. Il più ampio e notevole di questi lacerti è quello reimpiegato come muro frontale dell’aula, che da indagini approfondite nell’angolo sud-est dell’atrio si comprova residuo del lato esterno di una casa di abitazione del I secolo. Tre porte d’ingresso intagliate in questo muro definivano la sua nuova funzione.
Sugli inizi del VI secolo l’intero edificio fu oggetto di una grande ristrutturazione monumentale, condotta sulle stesse dimensioni di un’aula che misura m. 14.30 in larghezza e oltre 43 metri in lunghezza. L’intero piano pavimentale dell’aula fu coperto da una rete uniforme di loculi tombali (formae), come quelli che ora si vedono nella porzione occidentale dell’aula (2), intonacati con malta a cocciopesto impermeabilizzante e coperti da grandi lastre in pietra che formavano il nuovo piano di calpestio. La porzione orientale dell’aula, a m. 32,45 dalla controfacciata, si trovava rialzata d’un gradino e recinta con plutei (3). Le lastre di copertura portavano i testi epigrafici che qui ancora si conservano in frammenti, come la memoria greca del commerciante antiocheno DIAS figlio di Bassiano (4), l’iscrizione cliteata del prete Metronio intitolato custode di questa basilica (5), o la tabula ansata che copre tuttora la tomba intatta del V.S. CENSORIUS (6). La disposizione di questi loculi presenta il caso di un autentico retrosanctos, dove le tombe dei cristiani si serrano compattamente addosso alla sepoltura dei santi e con le loro coordinate contribuiscono a individuarne l’ubicazione. Il riesame più attento dei testi agiografici ha consentito di ambientare qui il santuario martiriale complementare alla canonizzazione dei tre evangelizzatori di Anaunia e l’origine del culto del loro vescovo S. Vigilio, associato alla loro gloria con la sepoltura ad sanctos.
La ristrutturazione fin qui descritta ha comportato anche un rialzo della soglia della porta principale, con la realizzazione di un pianerottolo gradonato anteposto verso l’atrio (7). Contemporaneamente il muro di facciata veniva consolidato con l’applicazione di due robusti semipilastri destinati a impostare un portico (8).
Completando la visita dell’aula maggiore sotterranea converrà ricordare che la vera larghezza della basilica paleocristiana è quella che si intravede oltre lo spessore dei grossolani blocchi murari fatti per sorreggere i pilastri della chiesa superiore. Così pure i due blocchi anteriori che ora recano le due tavole marmoree con la serie dei vescovi di Trento appartengono alle strutture della chiesa nuova e della sua cripta. Nello spazio è ospitato sul lato nord un rudimentale sarcofago (9), rinvenuto vuoto nella zona dell’atrio, in cui furono deposte nel 1977 le spoglie del principe vescovo Adelpreto. La recente riscoperta delle circostanze storiche di questo personaggio-chiave del Medioevo trentino, ucciso da feudatari ribelli nei pressi di Arco il 20 settembre 1172, come pure la puntuale revisione delle vicende del suo culto, che lo associarono al patrono S. Vigilio perfino nella dedica dell’altare barocco della cattedrale attuale, hanno riacceso la sua memoria in questa basilica più antica dove egli fu originariamente sepolto in una delle tombe pavimentali.
27.Il sarcofago reca un calco della famosa targa con l’uccisione di adelpreto, conservata ora al Museo Diocesano.Sul bordo è riportato l’esametro iscritto con mano del secolo XII su un foglio del Sacramentario Udalriciano:PASTOREM IUGULAVIT OVIS RES MIRA PER ORBEM.
L’attuale riassetto del pavimento dell’aula, dopo aver ricuperato quanto possibile il profilo degli antichi loculi, ha ricollocato in questi i resti mortali dei vescovi del passato, le cui tombe si erano disintegrate per vicissitudini varie o per i recenti scavi. Furono qui trasferite anche le spoglie di quei vescovi più recenti che dalla fine del Settecento erano stati deposti nella cella sepolcrale della Cappella Alberti, senza poter godere di una segnalazione del nome. In questo luogo, che così è diventato il più rappresentativo luogo sepolcrale dei vescovi di Trento, trovano il loro riposo anche i più recenti vescovi defunti, come Giovanni Sartori (1998) e Alessandro Maria Gottardi (2001). I resti scheletrici dei possessori paleocristiani di questi stessi loculi furono invece concentrati, in apposite cassette numerate, negli ultimi quattro loculi localizzati in prossimità della porta maggiore.
Un’attenzione particolare tra gli oggetti qui esposti merita ancora il pluteo a nastri intrecciati (10) (Flechtband), esposto presso il lato settentrionale e la grande arca sistemata in zona centrale. Quest’ultima fu già attribuita al VI secolo, ma gli studi più recenti la datano piuttosto al secolo XII, contemporanea cioè all’epigrafe che corre lungo il bordo superiore in onore dei tre atleti di Anaunia e del vescovo S. Vigilio, venerati come i corpi santi del presente santuario (11). Rimane un problema aperto quella che può esser stata la collocazione originaria dell’arca nella precedente basilica, prima che fosse riutilizzata come nucleo dell’altare nella nuova chiesa del Duecento in fondo al presbiterio rialzato.
Un ultimo sguardo all’architettura evidenzia la grande innovazione dell’undicesimo secolo: l’aula che era stata mononavata viene ora divisa in tre navate da una doppia fila di pilastri protoromanici messi a sorreggere archi e volte. In una campata della navata destra figura il blocco di un altare laterale (12). E un po’ più avanti sul muro meridionale si apre ancora una porta laterale (13). E’ questa la basilica alla quale gli imperatori Enrico II e Corrado II legarono insigni federazioni di preghiera e assegnarono anche la donazione dei diritti di contea, cioè del potere temporale conferito ai vescovi.
Passando al settore orientale della basilica sotterranea converrà anzitutto osservare come prosegue anche qui ininterrotta la rete dei loculi pavimentali con le loro lastre di copertura (6). Qui è ancora in buona parte intatto lo strato di malta battuta che a un dato momento fu steso sopra tutto il complesso delle tombe nascondendone il disegno (tracce di esso sono visibili anche nell’angolo sud-ovest dell’aula). Esso portava una decorazione in mosaico pavimentale, di cui i frammenti conservati hanno consentito ampia ricostruzione. Contestuale all’intera operazione è la creazione di un nuovo presbiterio con bema sviluppato in avanti, di cui si conserva tuttora il gradino anteriore con le fossette fatte per i sostegni che reggevano i plutei di recinzione. Dal mosaico e da altri raffronti l’operazione risulta databile sulla fine del secolo VI, al tempo del vescovo Agnello (577-oltre 591). Prolungandosi verso l’abside il bema doveva portare sull’asse centrale il monumento sovrastante alla sepoltura dei santi, l’altare e il banco presbiteriale semicircolare che concludeva lo spazio celebrativo. Tutto questo è noto dalla tipologia di tante altre basiliche del secolo VI, ma non esiste più materialmente nel nostro caso perché alla distanza di 2,40 m. dal gradino iniziale è stato calato quel muro trasversale (14) appartenente alla cripta di Udalrico II (1022-1055) che ha fagocitato lo spazio delle antiche sepolture. Sopra la cripta nasceva così un presbiterio rialzato, al quale si saliva frontalmente con elementi gradonati che in qualche parte ancora si conservano. Il corpo rialzato si raccordava fortemente con i robusti pilastri della navata e mostra ancor oggi uno sviluppo cronologico che ha finito per dare a questa struttura la forma di una crociera che omologava come bracci di transetto anche i collegamenti con i due sacelli laterali. A quest’ultima fase della rielaborazione si connette anche la rifinitura interna della cripta, visibile tuttora nella parte bassa della sua porzione centrale, quale fu completata dal vescovo Altemanno nel 1145. Ad essa si accedeva da due scale collocate in testa alle due navate laterali (15), per accedervi poi lateralmente attraverso passaggi sormontati da archi (16) (le due ali laterali, oggi non più visibili sono state resecate dalle fondazioni del nuovo coro del Duomo). Nell’abside sorgeva l’altare, la cui mensa oggi è ricostruita con frammenti di una mensa paleocristiana (17). Dalla parte opposta la controabside quadrata ospita fin dai tempi di Altemanno le reliquie di una santa importata, di nome Massenza, che il popolo prese a venerale come la madre si S. Vigilio (18).
Le semicolonne laterali e le basi circostanti all’altare mostrano come l’ambiente doveva avere una copertura a oratorio, distribuita su tre navatelle longitudinali di eguale portata. Ai fianchi dell’abside sono ora sistemate due lapidi tombali, che appartenevano originariamente ai rispettivi sepolcri collocati più in alto sul piano pavimentale della cripta nuova: quella del vescovo Alberto di Ortenburg (m. 1393) a nord e quella del vescovo Giorgio Hack (m. 1465) a sud.
All’antica basilica appartengono ancora i due sacelli laterali, a cui ora si accede attraverso i due cancelli, perforando i diaframmi che delimitavano la larghezza della cripta successiva. I due sacelli hanno forma corrispondente tra loro, con absidina posta a oriente e nicchia rettangolare affiancata da due colonne, ricavata sui lati esterni. In questa forma i due sacelli sono stati assestati ai fianchi della basilica nel corso del secolo VIII. Il sacello meridionale (19) ospita nella nicchia un sarcofago longobardo del secolo VII, rinvenuto vuoto e interrato sotto il piano pavimentale centrale dell’ambiente.
Gli scorre davanti il filo poco rialzato di un muro molto più antico, forse conservato per una certa funzione di parapetto. Sul lato nord del sacello si allineano tre tombe terragne, precedenti alla costruzione del sacello, affiancate al muro di fondazione dell’aula paleocristiana. Il sacello settentrionale (20) reca sulla struttura absidale una decorazione affrescata a panneggio, del secolo XI e nella nicchia laterale ospita una tomba sopra la quale il resto di una decorazione in mosaico traccia ancora un nome: … IS HATTO QUIESCO (un vescovo di Trento HATTO si documenta fra il 1055 e il 1057).
Il sacello nord ospita ora anche un punto informativo con ampia illustrazione della genesi di questa basilica sotterranea. Ambedue i sacelli espongono altri notevoli reperti archeologici frammentari rinvenuti sul luogo nel corso della ricerca.
Bibliografia
N. Toneatti, Saggi d’illustrazione del Duomo di Trento, Trento 1872. V. Zanolini, Per la storia del Duomo di Trento, in Atti dell’I.R. Accademia degli Agiati in Rovereto, Ser. III. Vol. V (1899), pp. 97-166. S. Weber, I maestri comacini a Trento, in Rivista Tridentina, VIII (1908), pp. 201-221. Ori e argenti dei santi. Il tesoro del duomo di Trento, a cura di E. Castelnuovo (con testi di E. Castelnuovo, M. Collareta, W. Koeppe, M. Lupo, A. Della Latta, D. Digilio, E. Pagella, C. Piglione), Trento 1991. Il Duomo di Trento. Architettura e scultura, a cura di E. Castelnuovo (con testi di E. Castelnuovo, A. Peroni, I. Rogger, G. Seebach, B. Passamani, S. Lomartire), Trento 1992. Il Duomo di Trento. Pitture, arredi e monumenti, a cura di E. Castelnuovo (con testi di A. Bachi, M. Bellabarba, E. Castelnuovo, S. Castri, M. Collareta, E. Chini, W. Koeppe, E. Mich), Trento 1993. L’antica basilica di S. Vigilio in Trento. Storia, archeologia, reperti, a cura di I. Rogger e E. Cavada (con testi di I. Rogger, G. Seebach, R. Oberosler, E. Cavada, B. Kainrath, H. Stadler, D. Mazzoleni, S. Tavano, P. Porta, G. Fogliardi, R. Zuech), 2 voll. Trento, 2001.
©2004 – Tutti i diritti riservati
Museo Diocesano Tridentino
38100 Trento – Piazza Duomo
Tel. 0461 234419 museodiocesano@iol.it – wwww.museodiocesanotridentino.it