Il fianco settentrionale dell’edificio, non completamente visibile per chi lo guarda dalla piazza, comprende anche la struttura del coro, che si sviluppa oltre la costruzione merlata del Castelletto e l’absidina sul lato est del transetto con l’adiacente portalino d’ingresso (b) ornata di bassorilievi marmorei, occultata ora dal setto murario che chiude l’ambito esistente fra il Castelletto e il corpo stesso della chiesa.
4. La pianta è a croce latina, a tre navate, con due absidine laterali sviluppate sui fianchi del transetto. La lunghezza complessiva è di m. 72; la larghezza di m. 24, dei quali 12 sono assegnati alla navata maggiore; altezza della navata maggiore è di m. 26, quella delle navate minori m. 19. Le lettere alfabetiche rinviano al testo.
La fronte del transetto verso la piazza presenta il grande rosone con
la ruota della fortuna (c), opera di uno scultore campionese di fine Duecento, che ebbe qualche influsso anche sullo sviluppo architettonico dell’edificio. La mitica figura della Fortuna sovrapposta all’anello centrale sta girando la gran rosa dalle dodici foglie che simboleggiano le rapide ore della giornata dell’uomo, mentre sulla ghiera esterna si accompagna il giro dei dodici ometti, che ruotano in senso antiorario salendo all’acme della felicità dove il fortunato trionfa, per poi declinare e scendere con la ruota a capofitto fino al punto più basso.
5. particolare della facciata nord con la Ruota della Fortuna.
Alla base del muro, ad altezza d’uomo, si leggono alcune misure di lunghezza, come la pertica, il passo e il braccio di Trento, qui incise per controllo all’uso del mercato.
Segue il protiro cinquecentesco (d) della “Porta del vescovo”, così chiamata perché da questa parte entravano i pomposi cortei provenienti dalla residenza vescovile del Buon Consiglio attraverso la vecchia Via Larga (l’attuale Via Belenzani). Il protiro, che nel timpano reca l’immagine scolpita di S.Vigilio, ha riutilizzato i due leoni stilofori del portale romanico, che si apre con profonda strombatura del fianco della chiesa. La lunetta sopra il portale espone un
Cristo Pantocrator con i simboli dei quattro evangelisti in due grandezze diverse, pregevoli sculture di fattura più antica (compagnia di Adamo D’Arogno) ricollocate qui in fase successiva.
La rimanente fiancata della chiesa fino al campanile dimostra la solidità e la dignità con cui è costruito il tempio, lavorato tutto in pietra viva di Trento diligentemente squadrata. Le lesene esistenti ricordano una impostazione che fu poi abbandonata quando furono inserite a maggiore altezza le finestre. Si rivela così una cronologia piuttosto complessa della costruzione, sulla quale ancora si studia. Nel paramento furono riutilizzate, inserendole in posizione orizzontale, anche tre pietre scolpite di epoca romana, con fregi che presentano fra l’altro il motivo del tridente, fertile di fantasie etimologiche sull’antico nome della città (Tridentum).
Corona l’intero lato settentrionale del Duomo la galleria praticabile, sorretta dalle molte colonnine romaniche, accessibile da una porticina presso il campanile e sviluppata anche oltre la sporgenza del transetto in modo da abbracciare l’intera zona absidale e raggiungere il transetto meridionale.
Nella finestra del campanile (e), sulle spalle che portano l’arcatura, si presenta una serie singolarissima di sculture, ancora poco conosciute, attribuibili forse al comacino Egidio da Campione nei primi decenni del Trecento.
Lafacciata occidentale (f) è dominata dalla impostazione dei due campanili, dei quali uno dovette rimanere ineseguito per la profonda innovazione dell’assetto interno. Il campanile settentrionale, poggiato all’interno su due archi, fu elevato in fasi successive e ricevette, nelle prima metà del Settecento, la cuspide a cipolla, imitata poi tante volte nelle valli trentine. L’intera facciata era costruita per essere guardata da vicino, dato che fino a metà Ottocento lo spazio antistante era ristretto. Domina in essa l’apertura strombata del portale maggiore, con l’architrave a girali di vite e la lunetta affrescata con Maria Santissima, S. Vigilio e altro santo. L’immenso rosone col Cristo Pantocrator e i simboli dei quattro evangelisti, il quadrato centrale e i sedici petali che in circonferenza sviluppano una delicata trama di intagli marmorei, viene attribuito anch’esso a Egidio da Campione e ai primi decenni del Trecento. La sommità della facciata invece, con l’occhio rotondo e le loggette che salgono verso il vertice, è opera dei recenti restauri di fine Ottocento.
6. Finestra sul lato del campanile. Figure scolpite della prima metà del Trecento.
La facciata presenta in alto sul lato estremo del campanile tronco un’epigrafe che ricorda la munificenza del nobile Guglielmo di Castelbarco; essa reca la data 1309, che è rilevante per la cronologia dei lavori di questa parte dell’edificio e del fianco meridionale.
Il fianco meridionale del Duomo è contornato da antistante sagrato (oggi: Piazza Adamo D’Arogno) e dalle vecchie case canonicali. Custodisce una recente statua di S. Vigilio dello scultore Stefano Zuech.
7. Lato sud con lo stemma Castelbarco e il corpo della Cappella Alberti.
Il lato della Chiesa è trattato in maniera più semplice e uniforme, con un assetto di lesene e una serie di archetti pensili sorretti da testine e protomi animali scolpiti. Il leone araldico della famiglia Castelbarco conferma la data del secolo XIV. Una forte sporgenza da questa parte forma la Cappella Alberti, aggiunta in epoca barocca, la cui cupola presenta una certa analogia con quelle che erano le forme originarie del tiburio cinquecentesco del Duomo.
Fra la Cappella Alberti e il braccio del transetto (g) si apre un altro ingresso laterale di fattura romanica con lunetta affrescata. Lo spigolo di incontro col braccio sud del transetto è smussato, perché contiene la scala a chiocciola che conduce alle parti superiori. Un’epigrafe in grandi lettere gotiche ricorda qui un canonico Jacobus Comes, che è uno degli ultimi rampolli della nobile famiglia di Appiano, morto nell’anno 1300. Sul fianco della Cappella Alberti si trovano affisse alcune lapidi sepolcrali provenienti dal pavimento del Duomo donde furono rimosse insieme ad altre sulla fine dell’Ottocento.
La parte absidale riserva una insospettata ricchezza di forme architettoniche e di elementi decorativi. Il corpo dell’abside maggiore (h) distingue nettamente il piano inferiore, corrispondente alla cripta, dal piano rialzato che abbraccia il coro. Le grandi monofore con eleganti strombature dettano l’armonica ripartizione dei campi, che si articola in un gioco sempre più intenso di elementi, fin quasi a rompere l’equilibrio tra funzione architettonica e apparato decorativo: è tipico in proposito lo scherzo delle colonne ofitiche sorrette dai grifi.
Accanto all’abside maggiore, sul braccio meridionale del transetto si innesta la mole minuscola dell’absidina (i), più sobria anche nella decorazione. A lato di essa si apre un ultimo ingresso, stretto e alto, sormontato da un protiro snello sorretto da telamoni e da un leone stiloforo. Insieme al leoncino che sovrasta il protiro, ai bassorilievi con leoni e draghi sui fianchi dell’ingresso, ai due grifi alati che si trovano alla base della finestra centrale dell’abside maggiore, queste sculture vengono attribuite a una buona maestranza comacina che operò dopo la metà del Duecento nell’epoca del vescovo Egnone di Appiano (m. 1273).
8. Blocco absidale con protiro e absidina minore.
Al corpo dell’abside maggiore appartengono due epigrafi significative: quella dell’arcidiacono Bonifacio di Castelbarco (m. 1238) incastonata nella base dell’angolo sud-est. E quella del costruttore Adamo D’Arogno, con menzione del mandato a lui conferito nel 1212, inserita nel lato orientale dello stesso angolo verso la fine del Duecento per identificare il luogo di sepoltura dei i e discendenti della sua famiglia.
La regione absidale appare all’occhio incompleta per la collocazione del Castelletto che impedisce la visione del transetto settentrionale con relativa abside e ingresso laterale. L’interno del Castelletto era occupato in basso da una cappella seminterrata dedicata a S. Giovanni Battista; al piano rialzato conteneva la monumentale cappella del palazzo vescovile dedicata alla santa Croce e ai santi Biagio e Lucia. L’edificio, con abside che gli appartiene, fu consacrato nel 1071 e fu ricostruito con la sovrastante sala a trifore e col campaniletto (che la leggenda trentina collega all’eremita S. Romedio di Val di Non) dal vescovo Federico Vanga (1207-1218). Per molti anni si credette di identificare con questa costruzione l’antica basilichetta paleocristiana di S. Vigilio. Oggi tale ipotesi è definitivamente esclusa.
Valutazione d’insieme. I costruttori hanno saputo amalgamare in una costruzione unitaria due parti molto diverse per epoca e stile. L’impianto del presbiterio è concepito su moduli più quadrati con un evidente senso della massa ed è attribuibile alla prima metà del Duecento. La navata maggiore invece, con le sue campate rettangolari straordinariamente sviluppate in senso verticale e sorrette dagli energici pilastri a fascio, ebbe il suo assetto definitivo un secolo più tardi, evitando tuttavia ogni brusca frattura stilistica.
9. Profilo del presbiterio, della cripta e del transetto nella loro struttura originaria.
Mentre l’impostazione esterna farebbe pensare a un duplice campanile in facciata, cui doveva corrispondere un nartece intermedio prima di accedere all’interno della chiesa, qui è conglobata allo spazio interno già la prima delle sette campate, assorbendo anche l’area che spettava al piede dei campanili. Questa tendenza espansiva viene favorita anche dalla collocazione ad angolo dei pilastri a fascio e dall’altezza degli archi, che pur conservando formalmente l’impostazione basilicale dell’alzato, aiutano la dilatazione del senso spaziale fondendosi con l’ambito delle due navate laterali senza marcare particolari divisioni. I due muri laterali sono conformati così in sintonia con lo spazio interno. Ad essi è stata dedicata una cura sproporzionatamente maggiore di quella che occorrerebbe per semplici piano di chiusura. Le due
scale rampanti (l), ricavate nello spessore delle pareti, hanno la funzione di muovere e di articolare il muro, allargando e arricchendo lo spazio. Fenomeno più unico che raro nella storia dell’architettura, queste scale che salgono all’indietro sembrano introdurre una controspinta al movimento principale dell’edificio, che procede dalla porta principale d’ingresso verso l’altare maggiore. In questi elementi, più ancora che nell’uso dell’arco ribassato delle volte e nella quasi totale assenza dell’arco acuto, è radicata la sapiente fusione del romanico tardo col gotico, che costituisce il vanto maggiore del Duomo di Trento.
10. Squarcio di spazio attraverso le navate.
Indubbiamente la combinazione di questi vari elementi ha comportato nel tempo anche una serie di problemi statici ed estetici. La lunghezza dell’interno è divenuta eccessiva (senza la prima campata lo spazio della navata centrale è misurabile in tre campate quadrate). La loggia altissima che è venuta a inserirsi in controfacciata fra il residuo dei due campanili non ha funzione di cantoria né di tribuna d’organo, ma è un pontile con funzione statica per consolidare la precarietà delle varie strutture.
La zona del presbiterio e del coro (m) è stata fortemente modificata nel secolo XVIII.
Fino al 1739 essa possedeva una cripta, profonda appena m. 1,10 dal piano della chiesa, alla quale si accedeva da tre grandi arcate frontali e da ingressi laterali rivolti ai due braci del transetto. Sopra la cripta un piano pensile, elevato di m. 4,30 rispetto al piano pavimentale della chiesa, portava l’altare maggiore e il coro. E’ da ricordare che le sessioni solenni del Concilio di Trento furono celebrate quasi tutte sopra questo “ponticello del coro”, adattato ad aula conciliare mediante tavolati e drappi. La trasformazione radicale che portò alla situazione odierna fu motivata da un voto della città per la liberazione dall’assedio dei Francesi nel 1703. Così la cripta fu demolita e il piano del coro e del presbiterio fu portato alla quota attuale.
11.Interno del Duomo di trento al tempo del Concilio (sessione del 15 luglio 1563) - Tela oggi conservata al Museo del Louvre di Parigi.
12.Fianco setentrionale della cripta e piano pensile del presbiterio prima della demolizione del 1739 (ricostruzione).
Delle due lapidi vistose che ancora si vedono affisse in alto ai due pilastri anteriori della cupola, una (a sud) descrive le ristrutturazioni del 1739-40, l’altra (a nord) commemora con qualche imprecisione quella che fu l’ubicazione del Concilio di Trento.
L’altezza del vano sottostante alla cupola fu occupata dal grande baldacchino barocco, che riprende l’idea del baldacchino berniniano della Basilica Vaticana, ma la traduce in una versione ottica, fatta di luce e di movimento. Sotto il baldacchino, l’altar maggiore, eretto già allora con mensa rivolta anche al popolo, si eleva nel centro focale della chiesa, sopra quello che fu già il luogo della sepoltura di S. Vigilio. Altare e baldacchino sono dei fratelli Domenico e Antonio Sartori, da Castione presso Mori, che usarono marmi pregiati, anche francesi e africani. Gli angeli, i putti e gli emblemi che ornano la parte superiore del baldacchino, sono in gran parte dello scultore Francesco Oradini. In epoca recente furono collocate sotto l’altare maggiore le reliquie dei patrono S. Vigilio, chiuse in una urna gotica rivestita di squame in pietre dure.
Il presbiterio fu recentemente adeguato alle esigenze della celebrazione, estendendo alquanto il piano pavimentale in avanti e creando l’ambone marmoreo con l’utilizzo di un pluteo romanico scolpito. La sede episcopale è provvisoria e attende una sistemazione migliore, che si relazioni anche alla sede monumentale collocata in fondo al coro.
13. Coro e cattedra vescovile nell'abside.
Anche la struttura e il mobilio del coro, che si estende dietro il presbiterio, furono integralmente rinnovati in quell’epoca, con la doppia serie di sedili e il trono vescovile intagliati in noce. Sopra la serie degli stalli canonicali 24 pannelli intagliati raffigurano apparizioni di angeli, dall’Antico e Nuovo Testamento. Sopra la porta che conduce in sagrestia era esposta l’immagine della Madonna del Coro, una copia della Madonna di S. Maria del Popolo a Roma, portata a Trento dal vescovo Giovanni Hinderbach nel 1466 (ora conservata nel Museo Diocesano). In fondo al coro un lacerto di affresco quattrocentesco con Madonna è l’unico residuo di una decorazione che un tempo abbracciava tutto l’ambiente.
L’organo, recente, ricoverato dietro la cattedra vescovile sul fondale del coro, rappresenta una soluzione provvisoria di necessità, in attesa di soluzione migliore.
14. Lapidazione di s. Stefano. Rilievo marmoreo del transetto meridionale: scultura della prima metà del Duecento, di influsso antelamico.
Nel
transetto meridionale si apre la plastica volumetria della piccola abside dedicata a S. Stefano (n), il cui martirio per lapidazione è raffigurato nei due
pannelli scolpiti, ai lati della finestra. L’altare custodisce ora le reliquie dei protomartiri trentini, il diacono Sisinio, il lettore Martirio e l’ostiario Alessandro, i tre santi che occuparono lo spazio della prima basilica martiriale sulla fine del secolo IV. Le due urne in bronzo che ora le contengono sono di M. Demetz (1966) e di L. Carnessali (1978).
Le pareti del transetto conservano ancora buona parte della vecchia decorazione in
affresco. La Madonna con santi, il Crocifisso ed altri santi, dipinti sulla parete sovrastante all’absidina, sono di scuola lombarda, forse bergamasca, della fine del Trecento. Il san Cristoforo maggiore dipinto sulla parete meridionale (o) presenta caratteri romanici, d’influsso veronese fine secolo XIII. Nell’angolo sottostante il rozzo sarcofago elevato su due mensole da terra ospitava fino al 1977 le spoglie del B. Adelpreto, di cui ora vedasi a p... Accanto ad esso si trova il monumento sepolcrale del generale trentino Ludovico Lodron, che nel 1571 partecipò alla battaglia di Lepanto. Omettendo altri monumenti minori, si segnala ancora la pietra sepolcrale (p) del condottiero delle truppe venete
Roberto Sanseverino, sconfitto e caduto nella battaglia di Calliano del 10 agosto 1487. Oltre l’angolo l’arca sontuosa destinata alla sepoltura del vescovo
Udalrico Lichtenstein (1493-1505) in cui si assommano elementi gotici e rinascimentali (la tavola con Crocifissione che la sovrastava è ora conservata al Museo Diocesano). Nel primo tratto della navata adiacente al transetto una portina romanica (q) praticata nel fianco meridionale immette nella scala che porta alle gallerie; la sua lunetta è decorata col rilievo d’un ariete balzante.
15. S. Cristoforo, pittore veronese (1290 ca.)
La Cappella Alberti, o del S. Crocifisso (r), si apre sul fianco della campata seguente. Essa fu costruita nel 1682 per volontà del principe vescovo Francesco Alberti-Poia, che volle qui anche la sua sepoltura. L’architettura e la decorazione in affresco sono opera di un sacerdote-artista, Giuseppe Alberti da Tesero, che progettò un programma iconografico unitario intorno al tema centrale della redenzione. Il punto di convergenza è costituito dal grande
Crocifisso ligneo con l’Addolorata e S. Giovanni, custodito nello splendido altare barocco dei marmorari Benedetti da Castione. Nel timpano sopra l’altare un gruppo marmoreo, dello scultore Francesco Barbacovi, raffigura l’albero del paradiso terrestre col peccato dei protogenitori che fu espiato e vinto dal nuovo Adamo sulla croce. La grande scultura lignea, opera del norimberghese Sixtus Frey (c. 1505), sormontava prima l’altare della S. Croce, collocato in testa alla navata centrale. Da qui desunse il particolare riferimento al Concilio, profondamente impresso nell’animo della popolazione trentina.
16. Cappella del Crocifisso, prospetto frontale.
A destra e sinistra della cappella due grandi tele, del pittore bavarese Carlo Loth e della sua bottega, rappresentano la natività di Cristo e la sua risurrezione; nella zone inferiore, in mezzo, esse portavano inseriti due medaglioni ovali con bassorilievi marmorei raffiguranti l’estasi di S. Francesco e il vescovo Francesco Alberti presentato da S. Vigilio al Crocifisso. Gli ovali furono eliminati in un restauro del secolo scorso. Il secondo di essi si trova ora infisso all’esterno della cappella, in alto sopra l’arco di ingresso. In occasione di detti restauri, che eliminarono anche la ricca decorazione a stucco che ornava la cappella, furono trasportate nella navata anche le due statue barocche della Maddalena e della Veronica, opera di Paolo Strudel, che originariamente fiancheggiavano l’altare. La cappella è chiusa da una deliziosa cancellata in ferro battuto, con lo stemma del vescovo costruttore.
Proseguendo lungo la
navata meridionale s’incontra anzitutto l’altare di S. Anna, appoggiato molto discretamente alla parete (s), ornato di una pala attribuita al Fogolino (o forse Romanino), della prima metà del Cinquecento. Nella penultima campata sorge l’altare vistoso dell’Addolorata (t), di Domenico e Antonio Sartori, eretto nel 1772 per la veneratissima immagine della Vergine, in legno, riccamente vestita, che si trova nella nicchia.
17. Altare della Vergine Addolorata.
Al piede della controfacciata, in arcosolio, sta l’avello sepolcrale di Calepino Calepini (u), giureconsulto trentino, morto nel 1495; sopra, grande tela di G. Alberti con S. Francesco e S. Antonio da Padova. Più a destra, nello spazio della navata centrale, si erge il monumento del celebre naturalista e botanico Pietro Andrea Mattioli, senese, che fu medico di corte del cardinale Bernardo Clesio e morì a Trento nel 1577.
Navata settentrionale. Dall’altra parte dell’ingresso principale, in posizione simmetrica col precedente, si colloca il monumento del conte Leonardo Nogarola, di famiglia veronese, consigliere del re dei Romani Ferdinando, che in occasione del conclave del 1534 gli diede incarico di adoperarsi per l’elezione del cardinale di Trento a papa. Sul lato settentrionale della navata figura un ricco altare barocco (v), che si dice qui trasferito dalla chiesa di S. Lorenzo ed espone attualmente un S. Antonio col Bambino di Domenico Udine (1824). Nello spazio successivo si collocano le tre memorie sepolcrali del medico di corte Giulio Alessandrini (m. 1590), del preposito Liduino Piccolomini (m. 1680) e dell’arcidiacono Girolamo Roccabruna (m. 1599). L’altare che segue (w), affiancato dalle statue marmoree di S. Carlo e S. Ferdinando (dello scultore Cristoforo Benedetti), fu costruito dal preposito Carlo Ferdinando Lodron (m. 1730), che nella pala, di Nicolò Dorigati, fece raffigurare vari santi cari alla sua famiglia, fra cui S. Ruperto, patrono di Salisburgo.
18. Altare con statue di s. Carlo e s. Ferdinando (1695) e pala con l'Assunta e vari santi.
In corrispondenza alla porta, presso il pilastro interno, si trova una deliziosa acquasantiera rinascimentale, commissionata nel 1515 dal canonico Giovanni Ortwein (la tazza è sostituita). Più avanti, nell’ultima campata, figura il monumento sepolcrale (x) del
cardinale Bernardo Clesio, il più famoso dei principi vescovi di Trento, uomo politico di rango europeo e mecenate della rinascenza trentina. La sua morte ebbe luogo a Bressanone, due giorni più tardi della data qui segnata, cioè il 30 luglio 1539.
19. Dalla Leggenda di san Giuliano
nel transetto settentrionale: congedo dalla madre ed entrata in città.
Il transetto settentrionale è usato come battistero e presenta al centro il fonte battesimale (y), di Francesco Oradini (m. 1754). Molto significativa è la
decorazione in affresco. Sulla parete settentrionale, sotto il rosone della fortuna, una fascia affrescata narra in otto episodi ininterrotti la leggenda fatale di S. Giuliano, dal vaticinio, alla partenza da casa, alle nozze, al tragico errore della uccisione dei genitori. Il nome dell’autore è segnato sul muro della città turrita che sta quasi al centro: Mons de Bononia, un pittore non ancora del tutto identificato, ma collocabile nella scia di Vitale da Bologna verso il 1365. Sotto la leggenda di S. Giuliano vari affreschi frammentari, di artisti diversi di quel secolo, rappresentano: la decollazione del Battista (attribuita a Tommaso da Modena), una Madonna col Bambino, una Trinità nella forma del
thronus gratiae, lo sposalizio di S. Caterina, l’apparizione del Risorto alla Maddalena, la Natività di Cristo e la morte della Vergine (queste due ultime sono di impronta giottesca). L’arca in pietra, sospesa in alto su due mensole, conteneva fino al 1977 i resti del principe vescovo Bartolomeo Querini (1304-1307). Sul fianco sinistro è collocata la cosiddetta “Madonna degli Annegati” (già all’esterno, nella nicchia presso la Porta del vescovo). In un grande sarcofago collocato ai suoi piedi si conservano le spoglie venerate del vescovo Giovanni Nepomuceno de Tschiderer (1834-1860), proclamato beato a Trento dal papa Giovanni Paolo II il 30 aprile 1995.
20. La Madonna degli annegati originariamente era policroma. riprende il modello ieratico della icona bizantina, elaborandolo con senso di solidità plastica e con una nota di vitalità popolare immediata. L'opera si colloca verso la metà del Duecento.
L’absidina, notevolmente più grande della sua consorella nel transetto meridionale, presenta una finestra spostata sulla sinistra, per andare incontro alla luce nell’ambiente esterno che era ancora libero da quella parte. Decentrato verso destra è inserito un pannelloscolpito, con la scena del martirio dell’apostolo S: Giovanni, condannato al supplizio della caldaia d’olio bollente (del “Maestro della ruota della fortuna”). L’affresco con la crocifissione, la Madonna, S. Giovanni e una figura incoronata (S. Elena o la Chiesa) risale stilisticamente al Duecento. Le due sante più a destra appartengono a un affresco più tardivo, databile verso la metà del Trecento.
21. Bassorilievo e affreschi imprimono all'absidina pieno significato.
Chi volesse a questo punto fare una visita alla
sagrestia (a), può recarsi nell’andito che si trova tra il transetto settentrionale e il lato ovest del Castelletto. Sul fianco esterno del coro del Duomo è ancora nettamente visibile la nicchia della porta che segna la quota pavimentale del coro fino al 1739 quando ancora esisteva la cripta. Anche all’interno si poneva approssimativamente a questa quota il pavimento del vano principale che era la cappella palatina del palazzo episcopale. Sotto di essa stava il corpo di una cappella inferiore, di cui si vede ancora la soglia d’ingresso nello scantinato. Nel Settecento i piani sono stati scomposti e il corpo della sagrestia ora corrisponde alla parte superiore della cappella di S. Giovanni Battista più la parte inferiore della cappella palatina dedicata a S. Biagio. Prima e dopo questo scambio dei piani lo spazio ebbe anche al funzione di aula capitolare e fu il luogo di elezione dei principi vescovi.
22. Testimonianza eminente della venerazione per le reliquie conservate.
I grandi armadi della sagrestia sono piuttosto recenti. L’oggetto più degno di ammirazione è il
Heilthumsaltar, cioè l’armadio delle reliquie in fondo all’abside, con le due porte dipinte a formare inventario, databili intorno al 1741. La seconda sagrestia, all’uso attuale dei canonici, è arredata da una imponente dotazione di armadi, creati negli anni 1745-48, sormontati dalle insegne araldiche dei 17 canonici che commissionarono il lavoro. Sopra gli armadi figura una serie di sei dipinti in formato minore con storie e miracoli di S. Antonio da Padova, di anonimo veronese di metà Settecento. L’aula ospita anche un affresco con Crocifisso, Maria e Giovanni, di pittore trecentesco veronese, strappato dall’absidina del transetto settentrionale.
23. Armadi con insegne araldiche dei canonici.